Dopo un inverno passato a fare lo slalom tra i semafori mobili che segnalavano lavori stradali di rifacimento delle condutture dell’acqua, ecco un “come eravamo” ai tempi in cui le case di Sacrofano non avevano ancora acqua corrente
di A. I.
Lastroni bianchi, levigati, corrosi dall’acqua della fonte, belli da vedere e da toccare. Una sensazione di piacere e di ristoro. Laggiù nella lunga e stretta valle, ai piedi del Monte Gennaro, ricca di orti rigogliosi e di calle dai bianchi imbuti, di dalie e zinnie colorate, si ergeva il Lavatoio Pubblico. Una costruzione oggi abbandonata, priva della sua acqua cristallina e canterina rimasta laggiù nel grande piazzale ormai trasformato in un vasto parcheggio arido e triste e poco utilizzato perché troppo scomodo per risalire la ripida ed erta strada. Quel Lavatoio un tempo si animava dalla continua presenza delle donne: voci, chiacchiere, canti, acqua freschissima e pulita, bucati da lavare, sbattere, passare nella cenere e poi nella saponata, poi risciacquati con cura e infine torti perché otessero essere trasportati nelle ceste. La voglia in estate di tuffarsi nelle vasche colme era una attrazione irresistibile. ma non si poteva: l’acqua era un bene troppo prezioso per poterlo imbrattare e inquinare. Bisognava avere rispetto e consapevolezza di quella ricchezza da non sprecare e preservare in tutta la sua purezza. La fonte laggiù a Pie’ di Pozza era soprattutto preziosa perché forniva l’acqua per bere. Per molti anni dopo la fine della guerra, le case erano sprovviste di impianti d’acqua potabile. Ci si lavava o si cucinava o si faceva pulizia con l’acqua dei cassoni o piovana recuperata o dei pozzi laddove esistevano. Ma per bere si usavano delle bellissime conche di rame battuto, panciute in fondo e snelle nella parte superiore, con grandi manici ritorti, alcune ricche di decori a sbalzo. Grandi e pesanti. Le donne scendevano presto al mattino o prima del tramonto (secondo le stagioni), riempivano sotto il getto generoso della bocca d’acqua corrente le lucide e rossastre conche e poi, aiutandosi l’una con l’altra, preparavano “le coroje” ovvero degli strofinacci di cotone spesso, ne facevano un torcione che arrotolato su stesso diventava una vera corona da porre sul capo. La parte difficile era abbassarsi fino all’orlo della fonte, prendere le conche per i manici, issarle sulla corona in cima alla testa e rialzarsi lentamente per non sbilanciare il peso ed evitare di far esondare l’acqua o peggio cadere. Erano delle dee. Movimenti perfetti, sincronizzati, con uno sforzo fisico immane si alzavano e con una mano sul fianco e l’altra a tenere il manico della conca, salivano con eleganza e fierezza su per la ripida salita che sfociava sulla strada di mezzo. È troppo romantico dire che sembravano delle indossatrici a una sfilata tanto erano eleganti. La fatica segnava i loro volti, le loro spalle, le loro braccia. Donne eroiche che quasi ogni giorno ripetevano, senza troppi lamenti, questo obbligo sfinente. La conca una volta in casa, troneggiava in un angolo della cucina, chiusa da un coperchio di legno, con accanto un ramaiolo appeso a un chiodo con cui si pescava l’acqua fresca e generosa senza sprecarla mai. Alle bambine venivano regalate delle piccole conche come fosse un giocattolo ambito ma soprattutto perché prendessero confidenza con quel lavoro da imparare e tramandare. Certo vedere oggi lo spreco che si fa dell’acqua senza alcuna remora né cura fa male al cuore. Impianti obsoleti, perdite quasi fiumi d’acqua che si riversano sulle strade nell’indifferenza e con un’insopportabile lentezza nel porvi rimedio. Annaffiature di orti, balconi, pulizie che potrebbero essere fatte in altro modo eliminando tanto spreco. Sarebbe utile ripensare a come raccogliere in invasi, cassoni, cisterne le acque piovane che ormai arrivano come cicloni causa il surriscaldamento del clima. L’acqua è vita e il pensiero va a quelle donne che dovrebbero far riflettere su quanto siamo fortunati ad aprire un rubinetto e veder scendere quel liquido così prezioso, buono e insostituibile. Pensiamoci.