Tra debito e inflazione, il riarmo non ci riporterà la crescita economica

28/11/2025 | _n.8-2025

La guerra non è solo sbagliata, ma anche un pessimo affare: distrugge risorse, accresce l’incertezza, limita gli scambi internazionali e sottrae risorse a sanità e istruzione
di Guglielmo Forges Davanzati, economista presso UNISALENTO

Recentemente il ministro Guido Crosetto ha dichiarato che compito della difesa è generare crescita economica. Si tratta di una tesi diffusa a destra, motivata con la convinzione che le innovazioni nel settore militare si trasmettano al resto dell’economia, con effetti propulsivi. Nel caso europeo, l’aumento delle spese militari al 5 per cento del Pil trova anche questa motivazione. Analisi marxiste condividono l’idea che il keynesismo militare sia il principale strumento di cui il capitalismo si avvale per fuoriuscire dalla stagnazione. Si fa riferimento, per accreditare questa tesi, alla Seconda guerra mondiale – e alle ingenti produzioni di armi finanziate con spesa pubblica in quel periodo – come soluzione cruenta alla crisi del 1929 (ma si dovrebbe tener conto che la ripresa si ebbe solo a partire dal ventennio successivo).

Una questione di debito e Pil
Che l’aumento della spesa militare sia la risposta sbagliata a un problema esistente lo dimostra il fatto che questa strategia sta producendo un aumento del debito pubblico/Pil su scala mondiale. La caduta del Pil è imputabile al fatto che il quadro macroeconomico globale è caratterizzato da stagnazione della produttività e del tasso di crescita. Stando a Rober J. Gordon (How America’s high standard of living came to be and why future growth is under threat , 2016), sarebbe, questa, una stagione di stagnazione tecnologica, se confrontata con gli anni Cinquanta/Settanta e, dunque, con la fase della diffusione di innovazioni di maggiore impatto su produzione e consumo (automobili, televisori, etc). Come evidenziato da alcuni analisti, è in atto un paradosso per il quale l’avanzamento tecnico non produce rilevanti incrementi di prodotto per addetto. Si tratta di quanto l’economista Robert Solow ebbe a definire una condizione per la quale vediamo computer dovunque tranne nelle statistiche sulla produttività. L’economista statunitense Larry Summers ha fatto riferimento alla stagnazione secolare per dar conto del declino globale del tasso di crescita, riprendendo una tesi avanzata da Alvin Hansen nel 1938 per sostenere che alla Grande Depressione degli anni Trenta avrebbe fatto seguito una fase di permanente stagnazione. Lo stesso Summers si è interrogato sulla necessità di espandere la spesa, rilevando che «è certamente possibile che alcuni eventi esogeni possano intervenire a aumentare la spesa e incentivare gli investimenti. Ma, guerra a parte, non appare chiaro quali potrebbero essere tali eventi». Su fonte Fondo monetario internazionale, si stima che il debito globale si aggira intorno al 230 per cento del Pil e che negli anni Cinquanta questo stesso rapporto era del 100 per cento. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, il Tesoro rileva che a fine aprile 2024 il debito pubblico totale, chiamato Total Treasury Security Outstanding, cioè la somma delle varie obbligazioni e dei titoli di debito pubblico, era pari a 34.617 miliardi di dollari. Dodici mesi prima tale somma era di 31.458 miliardi. L’Ocse stima un rallentamento della crescita globale dal 3,3 per cento del 2024 al 2,9 per cento quest’anno e un aumento del tasso di inflazione che potrebbe raggiungere il 4,2 per cento nel 2025, in aumento rispetto al 3,7 per cento delle proiezioni di dicembre, e il 3,2 per cento nel 2026, rispetto a una precedente stima del 2,9 per cento.

L’inflazione legata alle guerre
Il problema che ne deriva fa riferimento alla sostenibilità del debito globale. Gli economisti insegnano che il debito pubblico è sostenibile se il tasso di crescita è superiore al tasso di interesse reale. Si tratta di una condizione che, per la gran parte dei paesi, oggi non si verifica e che risulta ulteriormente aggravata dall’esplosione dei conflitti in corso. Ciò a ragione del fatto che l’aumento del tasso di inflazione continua a spingere le banche centrali a tenere elevato il tasso di interesse e l’inflazione è imputabile ai conflitti: si pensi all’inflazione importata – nel caso europeo – dipendente dalla restrizione dell’offerta di gas da parte della Russia, come contromisura rispetto alle sanzioni imposte dopo l’invasione dell’Ucraina. Questa evidenza suggerisce che, sul piano macroeconomico, i costi macroeconomici della guerra eccedono i benefici: è vero che la spesa per la difesa comporta iniezioni di spesa pubblica che potenzialmente accrescono il tasso di crescita, ma è anche vero che distrugge risorse, accresce l’incertezza, limita gli scambi internazionali e sottrae risorse per usi più produttivi (tipicamente quelli del welfare: sanità e istruzione).

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