
Da questo romanzo di Luigi Celeste e Sara Loffredi è stata ricavata la sceneggiatura di Familia, film di Francesco Costabile che presenteremo al Teatro Alpi il 22 novembre alle 17,00.
PROLOGO. Mia madre grida. La sua voce invade il corridoio, sfonda le pareti e l’armadio a sei ante, puntando dritta al mio stomaco. Siedo da solo sul tappeto accanto al mio letto e ho in mano due pupazzi, i loro occhi vuoti mi osservano. Vai da lei, dicono. Ho cinque anni. Mi alzo e esco dalla stanza. Il cuore lo sento dappertutto, persino nei piedi mentre cammino; cerco di controllare il respiro ma ansimo come uno di quei cani piccoli che incontriamo al parco e mio fratello dice che non sono cani veri. Le urla salgono in alto e poi precipitano in basso mentre fisso la porta della camera dei miei, la mano si muove da sola sulla maniglia e il frastuono mi investe, come acqua da un rubinetto aperto all’improvviso. Di fronte a me, la schiena di mio padre. È a cavalcioni sul letto e le sue braccia si muovono al ritmo di colpi secchi che sento crepitare sotto le grida. Vedo il braccio di mia madre di fronte al viso, il suo corpo immobilizzato, il rosso, il rosso sulla maglia, il rosso dappertutto, quella non è una faccia, quella non è mia madre. Grido. Grido! Più forte che posso, più forte di lei. Lui si ferma. Io no. Scappo nella mia camera, mi butto nel letto tirando sopra la testa le coperte. In casa ora c’è un silenzio assoluto, che dura per un tempo lunghissimo. Mi accorgo di tremare. Poi sento attutita una porta che sbatte, passi verso il bagno, acqua nel lavandino, ancora passi e la porta blindata, il giro di chiavi. Se n’è andato. Rimango fermo ancora un po’, il fiato nei palmi, le dita a chiudere gli occhi. Poi mia madre esce dalla camera e la sento muoversi con passo trascinato verso la sala. È viva. Dopo un po’ prendo coraggio, sguscio fuori dal letto e vado da lei. Se ne sta accoccolata su una sedia accanto al tavolo, con una borsa del ghiaccio premuta sul volto e la maglia intrisa di sangue. Non sembra più così rosso, penso. Lei sente i miei passi, tenta di voltarsi ma le riesce a metà, così mi tende una mano. Io non dico niente e non chiedo niente, solo mi avvicino e vorrei salirle in braccio ma non so come fare, così mi accuccio poggiandole la testa sulle gambe. Lei mi accarezza i capelli con la mano, lentamente. Le aveva rotto il setto nasale. Per una settimana si rifiutò di portarla all’ospedale. Quando lo fece, i medici dissero che il naso si era ricalcificato con una deviazione. Per tutti fu l’ennesima caduta dalle scale.
(Luigi Celeste e Sara Loffredi, “Non Sarà Sempre Così: La mia storia di rinascita e riscatto dietro le sbarre “, Piemme, pp. 5-6)”.

