a cura di M.F.

Si pensi ai già citati rider, che durante la pandemia da Covid ci servivano a domicilio, del cui status non si occupa più nessuno. Usano le gambe per pedalare in fretta, l’app per ricevere ordini e soldi, a fine consegna dignitosamente non tendono la mano ma si aspettano una mancia, e non sono nemmeno considerati operai. Vogliamo definirli braccianti metropolitani, vittime di un vero proprio caporalato digitale: studenti universitari che domani saranno medici, ingegneri, informatici ma oggi cercano di arginare il caro affitti; impiegati che fanno un doppio lavoro perché uno stipendio non basta per vivere in una grande città; cassintegrati che devono pur sopravvivere; ragazzi stranieri che non possono scegliere il lavoro. Tutti a cavallo di una bicicletta, di un ciclomotore o di un monopattino, non scelgono ma devono accettare un lavoro on demand, senza alcuna tutela sindacale, diretti e organizzati da un algoritmo, dove la pausa è una perdita di tempo e di denaro, senza scarpe antinfortunistiche, senza una mensa o un bagno dove andare, governati da una piattaforma digitale, dove sei un numero di una multinazionale e non conosci alcun compagno di lavoro. Relazioni sindacali, retribuzione dignitosa, ferie, riposo, aspettativa, assenza per malattia: sotto la formula di “lavoratori etero organizzati” si azzerano i diritti costituzionali previsti dalla Costituzione, quali dignità, salute, formazione, previdenza, assicurazione, libertà sindacale, uguaglianza. E soprattutto sicurezza: morire su una bicicletta per pochi euro. È successo, continuerà a succedere. E qualcuno racconta queste morti come un semplice incidente stradale. Si accendono i riflettori, la politica si sveglia, l’opinione pubblica si commuove. Si indignano. Ma dura lo spazio di qualche giorno. (“Operaicidio”, Bruno Giordano e Marco Patucchi, Merlin Editore, pagg.61-62).
Segnaliamo sull’argomento le pagine Facebook e Instagram “Morti dli lavoro”, a cura di Piero Santonastaso.

