Perché le nuove generazioni non parlano più la lingua madre e faticano a riconoscersi nella cultura o nella storia del Paese d’origine
di Cristina Cotarta
A Sacrofano come ben sappiamo vivono tantissimi cittadini di origine romena, spesso insieme alle loro famiglie. Molti dei loro figli, però, non parlano più la lingua madre e faticano a riconoscersi nella cultura o nella storia del Paese d’origine.Questo fenomeno, comune in molte comunità migranti, non è solo una questione linguistica, ma tocca il cuore dell’identità. La lingua è infatti molto più di uno strumento di comunicazione: è un veicolo di memoria, valori, tradizioni e spiritualità. Perdere la lingua madre significa, in parte, perdere anche un legame emotivo e culturale con le proprie radici. La prossimità linguistica tra italiano e romeno, entrambe lingue neolatine, può paradossalmente accelerare questa perdita. L’italiano diventa rapidamente la lingua dominante e preferita dai giovani, perché più immediata, più presente e più utile nella vita quotidiana. Ma questa preferenza, pur comprensibile, non dovrebbe tradursi in una rinuncia definitiva alla lingua d’origine. Tuttavia, tra le seconde e terze generazioni si registra una progressiva perdita della lingua romena, un fenomeno già osservato in altre diaspore europee. Secondo lo scrittore romeno Norman Manea, “la lingua madre è la nostra prima patria”. Perdere questa lingua, infatti, non significa solo sostituire un codice comunicativo, ma interrompere un legame con la storia, la cultura e le emozioni familiari. Comunque, conservare la lingua e la cultura di origine può offrire vantaggi importanti: rafforza l’autostima, arricchisce il bagaglio culturale e facilita il dialogo intergenerazionale. In questo senso, insegnare ai giovani le proprie origini non è solo un gesto di memoria, ma un atto di amore e responsabilità. Perché solo chi sa da dove viene può scegliere con libertà dove andare e chi diventare.