a cura di M.F.
Ogni giorno, finché rimasi a Torino, continuai infatti ad attraversare il cavalcavia per andare a fare colazione lì, e poi lo riattraversavo per tornare a casa e lavorare passando sopra il via vai dei treni che arrivavano o partivano da Porta nuova. La pasticceria apparteneva a quell’arcipelago di esercizi commerciali a cui avevo per certi versi delegato la rappresentanza del mio senso di famiglia. Comprendeva, poco distante, una pizzeria gestito da una famiglia di calabresi immigrati a Torino negli anni Sessanta, un piccolo alimentari di catena che cambiava spesso gestione ma mai la cassiera, una farmacia, e poi altri bar e trattaria in zone diverse della città. Questi luoghi – e queste persone – si aggiungevano agli amici, ma erano di una specie completamente differente. Erano posti in cui mi sentivo bene, in cui non avevo l’obbligo di dire troppo di me, se non volevo, o di vuotare il sacco. Erano lì, ero sempre accolto, avevo il mio tavolo, e senza bisogno che dicessi nulla mi arrivava sotto il naso il cappuccino o il vino. Si parlava, quasi sempre. C’era una specie di diffuso buon umore. Ciascuno sapeva la porzione sufficiente di segreti da sentirsi intimi senza essere in alcun modo compromessi. (Andrea Bajani, “L’anniversario”, Feltrinelli).