Siamo fuori pericolo?
Il Consiglio comunale ha autorizzato la Sindaca Nicolini a firmare la transazione con il rappresentante dei creditori della Rsa: il dissesto è stato scongiurato, ma il controllo sulle spese non può abbassare la guardia
di Marco Ferri
La buona notizia arriva dopo due sentenze punitive per il Comune di Sacrofano e il rigetto della richiesta di sospensione della sentenza della Corte d’ Appello. La condanna a pagare 1.400.000 euro di risarcimento per i lavori di costruzione non ultimati della Rsa è diventata esecutiva. Non ci sarebbe stato scampo, se la trattativa per transare il debito non fosse andata a buon fine, il Comune sarebbe caduto in dissesto, col conseguente commissariamento del bilancio, che avrebbe comportato il blocco delle spese per la mensa scolastica, per lo scuolabus, riduzione dei salari accessori degli impiegati comunali, delle spese per la manutenzione del paese e per i servizi ai cittadini. E invece uno spiraglio si è aperto: la controparte ha accettato un risarcimento pari alla metà delle somme dovute, da versare in tre rate: la prima a giugno di quest’anno, la seconda a giugno del prossimo anno, il saldo a dicembre del 2026. Senza girarci intorno, è un importante risultato ottenuto dalla Giunta Nicolini: avendo ereditato un grosso problema, che metteva fuori gioco la capacità di gestire il Comune, l’Amministrazione è riuscita a ridurre l’impatto, a proporre una soluzione credibile e a chiudere la vicenda giudiziaria limitando i danni. Forte della sentenza della Corte dei Conti, che circa due anni or sono, riconosceva al Comune la capacità far fronte al disequilibrio di bilancio, – dovuto non solo dalle tristi vicende della Rsa, ma anche dal livello alto dell’evasione delle imposte, anch’esse parte di una eredità poco edificante -, il Comune ha dimostrato di saper uscire dal vicolo cieco che sembrava averne bloccato l’iniziativa. La situazione allo stato dei fatti è questa: per evitare il dissesto, il Comune sarà costretto a far fronte alla liquidità necessaria per onorare le tre prossime rate da versare ai creditori della Rsa. Contemporaneamente, dovrà continuare a rendicontare semestralmente alla Corte dei Conti l’andamento delle entrate e delle uscite, fino al 2030. In definitiva: siamo fuori pericolo solo e soltanto se nessuno abbassa la guardia sul controllo delle entrate e delle uscite dalle casse comunali. E se i cittadini continueranno a partecipare al risanamento, versando regolarmente i tributi, contribuendo attivamente e in prima persona al riequilibrio delle finanze comunali, utile e necessario al mantenimento di un accettabile livello della qualità della vita. Amministrazione e cittadinanza devono unire gli sforzi. A quanto risulta, un segnale positivo in questo senso è già giunto chiaro: l’opera di costante recupero dell’evasione sta avendo effetti visibili nel bilancio comunale. Un altro bel segnale va registrato nel finanziamento dovuto al PNRR e dalla Città Metropolitana per il polo sportivo (ce ne occupiamo a pag.2), perché vuol dire che il Comune non ha perso credibilità istituzionale. Chi voleva rassegnarsi all’idea che tutto era perduto e che l’unica alternativa sarebbe stata piegarsi al dissesto è stato smentito dai fatti. E si sa che i fatti sono molto più amici della verità di quanto non lo sia la propaganda.
Un giornale, una comunità
Per leggere il nostro presente e guardare insieme al futuro
di Piero Santonastaso
“Carta canta, villan dorme” è antico detto di chiaro significato: non esiste nulla di più credibile di qualcosa scritto su carta. Antico in senso relativo perché fino al XV secolo non v’era traccia della carta come la conosciamo noi: troppo costosi i materiali necessari a produrre supporti per la scrittura. Fu l’invenzione della stampa a caratteri mobili a stimolare la ricerca di alternative economiche, fino ad arrivare alla produzione industriale di carta di bassa qualità, ottimale per la stampa. A cominciare dalle gazzette, così chiamate perché i bollettini mercantili in uso a Venezia costavano una gazzetta, alla veneta “gazeta”, moneta d’argento del XVI secolo del valore di due soldi. Era il primo nucleo della comunicazione di massa.
Non che in antico la diffusione di notizie e informazioni fosse sottovalutata. Semplicemente mancavano i supporti che ne favorissero la circolazione. Erano dunque gli esseri umani a muoversi intorno all’informazione e non viceversa. Nell’antica Roma si affiggevano in punti fissi gli acta diurna, tavole di legno con su scritte le cose necessarie al funzionamento della comunità. E in mancanza di supporti toccava allora agli araldi e poi ai banditori, figure sopravvissuta nei paesi fino a mezzo secolo fa: nei vicoli si udiva il suono di una trombetta seguito da una voce stentorea che declamava l’oggetto della comunicazione, fosse l’arrivo del pesce al mercato o l’avvio di un lavoro stradale. Comunicazione ruspante, terra terra e perciò efficace, perché diretta all’intera comunità, per favorirne la crescita e l’integrazione, evitando al contempo la marginalizzazione di interi settori della popolazione, costituita peraltro da una maggioranza di analfabeti. A un livello superiore, per tutto il Novecento, si sono posti i quotidiani e le riviste. Erano le edicole e le bacheche i centri di aggregazione: punti di incontro, confronto e scambio alla luce delle notizie fresche di stampa.
Con l’imprescindibile appendice costituita da bar e circoli, ciascuno dei quali metteva a disposizione del pubblico uno o più giornali. Lì nascevano dibattiti e scontri che spaziavano dalla politica all’amministrazione, dallo sport al pettegolezzo, in questi ultimi casi declassabili a “chiacchiere da bar”. Poi, dopo l’intermezzo televisivo, è calato il silenzio imposto dagli smartphone: ciascuno si isola nel proprio piccolo schermo, nutrendo paradossalmente la convinzione di avere più voce immergendosi nel mare magno dei social.
“Leggo La Nuova Sacrofano perché
ho scoperto quanto sia bello leggere il giornale”
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Nel prossimo numero
Prende il via “Restaur/Azione”, la nuova rubrica di Alessia Felici, che ci guiderà alla scoperta del bello che, recuperato dal passato, può ancora allietarci la vista e stimolare la curiosità di saperne di più di Sacrofano

Ecco i fondi di PNNR e Città Metropolitana per il rifacimento della piscina comunale
(Foto di Matteo Mancori)
Con l’aggiunta di quanto stanziato dalla Città Metropolitana, la somma disponibile è di circa 1 milione e mezzo di euro per lavori che dovranno essere tassativamente terminati entro giugno 2026. Non sono frequenti le buone notizie di questi tempi, soprattutto per un Comune sottoposto alle stringenti restrizione imposte dalle procedure amministrative del riequilibrio di bilancio. Ne è consapevole Patrizia Nicolini, che durante la cerimonia di inizio dei lavori, cui ha partecipato Pierluigi Sanna, vicesin daco della Città Metropolitana, ha sottolineato che la rilevanza dell’evento ha ragion d’essere proprio in questa fase della vita amministrativa di Sacrofano: l’inizio dei lavori è importante quanto la futura inaugurazione, proprio perché interrompe quel clima cupo imposto dal controllo delle spese. Se per la Giunta si tratta quasi di un nuovo inizio, per la Città Metropolitana, nelle parole di Pierluigi Sanna, la ristrutturazione del polo sportivo, – che oltre al completo rifacimento della piscina, comprende la sistemazione del campo sportivo, a cominciare dalla tribuna per poi sistemare le aree adibite al corpo libero e al campo da basket -, dota la comunità di Sacrofano di una struttura moderna, attrezzata per accogliere i cittadini di ogni età, condizione sociale, con particolare attenzione alla disabilità. Ecco il motivo per cui ai fondi previsti dal PNNR si sono aggiunti quelli stanziati dalla Città Metropolitana di Roma: oltre al sostengo dello sport agonistico, le istituzioni pubbliche sono impegnate nello sviluppo delle attività fisiche come supporto alla qualità della vita delle cittadine e dei cittadini di ogni età. I lavori, per un valore di 1 milione e mezzo di euro, verranno supervisionati dall’Ufficio Tecnico del Comune nei tempi previsti dalle rendicontazioni imposte dal PNNR. I lavori sono cominciati il 1° aprile di quest’anno e dovranno essere consegnati entro il mese di giugno del 2026. Non solo la piscina, abbiamo detto, ma anche il campo di calcio, che oggi è anche da rugby. Poco più di un anno: dunque c’è tutto il tempo per rilanciare, per esempio, la squadra di calcio di Sacrofano, di cui molti sentono la mancanza. È il momento di farsi avanti per chi ha intraprendenza organizzativa e desiderio di sentir riecheggiare ancora “Forza Sacrofano” dalla nuova tribuna del campo di Monte Sarapollo. Coraggio.
La Fraterna Domus a Monte Caminetto, un impegno per la spiritualità e l’accoglienza
di Gianpietro Olivetto
La Fraterna Domus nasce nel 1975 per iniziativa di don Francesco Bisinella e si sviluppa grazie all’apporto di tanti amici e volontari. Questo centro accoglie pellegrini in visita a Roma, ma anche famiglie, ed è diventato punto di riferimento per ritiri spirituali, incontri di gruppi e diocesi, congressi, e per singoli in cerca di un momento di spiritualità o di pace interiore. Nel corso degli anni, la Fraterna Domus ha sempre mantenuto la sua vocazione di accoglienza verso i più bisognosi. Ha ospitato profughi e rifugiati provenienti da diverse nazionalità, oltre a immigrati e tante altre persone in cerca di aiuto e di un rifugio sicuro. In questo anno giubilare, la comunità ha cercato di favorire la cooperazione con le strutture locali, senza mai avere come obiettivo quello di monopolizzare la ricettività del territorio. Lo spirito della Fraterna Domus è quello di offrire un servizio a chiunque ne abbia bisogno, che si tratti di pellegrini in cerca di spiritualità, di assistenza agli anziani o di persone in difficoltà. In quest’ottica, la struttura collabora attivamente con la parrocchia di San Biagio di Sacrofano, con alcune famiglie, con i servizi sociali del Comune di Sacrofano e ogni volta che è possibile, indirizza i gruppi di pellegrini verso le strutture ricettive del luogo, per promuovere un’accoglienza che coinvolga l’intera comunità. Oltre ad essere luogo di incontro e preghiera, la comunità di Monte Caminetto si sta impegnando da qualche anno anche nella promozione della cultura. Alcune settimane fa, ha organizzato e ospitato la terza edizione della Cattedra dell’Accoglienza, un evento dal titolo “Speranza e accoglienza, per un futuro planetario e fraterno”. Quattro giorni intensi, dedicati ad esplorare i temi dell’incontro, del dialogo e della solidarietà, partendo dalle radici antropologiche ed etiche di questi valori. Vi hanno partecipato rappresentanti di numerosi enti come Acli, Azione Cattolica, Fondazione Migrantes, la Comunità di Egidio, diverse congregazioni religiose, onlus laiche, il coordinamento delle comunità d’accoglienza e tante altre organizzazioni impegnate nel volontariato. Tra gli ospiti anche il card. Pietro Parolin, Segretario di Stato Vaticano, il vescovo di Civita Castellana, Marco Salvi, padre Antonio Spadaro, sottosegretario del Dicastero per la Cultura e l’Educazione e Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme dei Latini Custode di Terra Santa.
Il 15 febbraio 2019, Papa Francesco ha visitato la Fraterna Domus di Sacrofano per presiedere la celebrazione eucaristica di apertura del meeting “Liberi dalla paura”, un incontro dedicato all’accoglienza dei migranti, organizzato dalla Fondazione Migrantes, Caritas Italiana e Centro Astalli. Durante l’omelia, il Papa ha espresso uno dei temi fondanti del suo pontificato, incoraggiando i presenti a superare la paura e ad aprirsi all’incontro con l’altro, sottolineando che la paura è spesso all’origine della schiavitù e delle dittature. (Fonte: avvenire.it).

Cerbottana
Ma non sarebbe meglio, invece che buon proseguimento, augurare buon cambiamento?


Le assaggiatrici
In attesa che si attivi una sala cinematografica presso il Teatro Ilaria Alpi, ecco la recensione di un film che ci sarebbe piaciuto vedere a Sacrofano
di Riccardo Tavani
Dal sottosuolo della Storia riemergono a volte vicende destinate – come tante altre – a restare sepolte per sempre. Le assaggiatrici, prima ancora che l’ultimo film di Silvio Soldini, è stato l’omonimo romanzo di Rosella Postorino, vincitore nel 2018 del Premio Campiello. Ma è stata soprattutto la storia realmente vissuta e tenuta nascosta da Margot Wölk fino a cinque anni prima di morire nel 2014. Vicenda vissuta insieme ad altre quattordici giovani donne abitanti nel villaggio di Gross-Partsch, nei pressi del quale si ergeva la Tana del Lupo, residenza e quartier generale di Adolf Hitler negli anni della Seconda Guerra Mondiale. Quindici ragazze ogni giorno sedute sul desco del morto. Erano obbligate, infatti, ad assaggiare tutte le pietanze destinate quotidianamente alla mensa del Führer. Questo perché il veleno è stato uno dei mezzi più invisibilmente micidiali che hanno scritto molte pagine storiche. Che il patriarcato – nella sua forma dittatoriale hitleriana – piegasse a questo servizio soltanto donne, e per di più soltanto ariane, dice tutto sulla sua concezione e pratica di cinico utilizzo della stessa intera nazione. Termine questo che – richiamando etimologicamente la nascita – non può che rimandare di per sé al femminile. E d’intossicarla letalmente, come mostra una scena del film, e conferma la Storia stessa. È il vero elemento di bruciante attualità di una vicenda di più d’ottanta anni fa. Ed è anche la parte in cui la drammaticità assume i toni della sensualità. La Germania, infatti, è prima sedotta dal nazismo, e poi non vuole sapere dell’orrore in atto nei campi di sterminio. Attuale, proprio perché oggi appare più incombente che delle nazioni siano di nuovo sedotte, piegate e piagate dal delirio nichilista di potenza. Regia di Silvio Soldini, Con Elisa Schlott, Max Riemelt, Alma Hasun, Nicolo Pasetti, Marco Boriero. Durata 123 minuti
Ex Libris
La Terza Legge Fondamentale della stupidità umana
a cura di M.F.
Una persona stupida è una persona che causa danno a un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita. Poste di fronte alla Terza Legge Fondamentale, le persone razionali reagiscono istintivamente con scetticismo e incredulità. Il fatto è che le persone ragionevoli hanno difficoltà a concepire e a comprendere un comportamento irragionevole. Ma lasciamo perdere la teoria e osserviamo invece quel che capita in pratica nella vita di tutti i giorni. Tutti noi ricordiamo casi in cui si ebbe sfortunatamente a che fare con un individuo che si procurò un guadagno causando a noi una perdita: eravamo incocciati in un bandito. Possiamo ricordare anche casi in cui un individuo realizzò un’azione il cui risultato fu una perdita per lui e un guadagno per noi: avevamo avuto a che fare con uno sprovveduto. Possiamo ricordare casi in cui un individuo realizzò un’azione dalla quale entrambe le parti trassero vantaggi: si trattava di una persona intelligente. Tali casi accadono di continuo. Ma riflettendosi bene bisogna ammettere che questi non rappresentano la totalità degli eventi che caratterizzano la nostra vita di tutti i giorni. La nostra vita è anche punteggiata da vicende in cui non si incorre in perdita 2000, peraltro) e quello continuativo dedicato a leggere un articolo online fosse di 15 secondi (secondo Jacques Attali, in “Disinformati. Giornalismo e libertà nell’epoca dei social”, Ponte alle Grazie, 2022). Informare e informarsi è impegnativo e faticoso, ed è quindi incompatibile con simili tempi. Questo è un problema, perché si tratta di attività essenziali per la democrazia e in generale per il benessere e lo sviluppo della società. La maggior parte degli esseri umani cerca di economizzare sul consumo delle proprie risorse, è quindi naturale che persegua e apprezzi il disimpegno. Ecco allora che nei mezzi di pseudo-informazione di massa si affermano contenuti quali sport, moda, gossip, insomma il futile prevale largamente sull’utile, l’intrattenimento sull’informazione. Come visto, si tratta di un ingranaggio tipico del marketing dell’ignoranza. (Carlo M. Cipolla, “Le leggi fondamentali della stupidità umana”, Il Mulino);
Potere
a cura di Monica Maggi
Passiamo attraverso i muri
e vediamo sott’acqua,
parliamo con esseri di altre epoche
e prevediamo il futuro,
troviamo un ago in un pagliaio
e lo perdiamo, oh dio.
(da I buoni giorni, 1972)
Luis Omar Lara Mendoza (Nohualhue, Teodoro Schmidt, 9 giugno 1941 – Concepción, 2 luglio 2021), poeta, traduttore ed editore cileno. Fondatore della rivista Trilce, vi accorpò la generazione poetica che sarà dispersa dal golpe militare del 1973. Fu esule in Perù e poi a Bucarest e Madrid. La sua poesia tratta la nostalgia del passato, l’amore e la fugacità del tempo.

Rumeno o Romeno? La guerra del ru- e del ro-
di Cristina Cotarta
Il significato di questa due parole è lo stesso indicando gli abitanti della Romania. In realtà nel lessico della lingua italiana entrambe le forme (rumeno e romeno) vengono trattate come varianti l’una dell’altra e quindi utilizzabili come si preferisce. Questo perché col tempo nessuna delle due parole ha prevaricato sull’altra, ma entrambe venivano usate in modo quantitativamente uguale e quindi una non ha dominato l’altra. Non solo nella lingua italiana si trovano delle varianti su questa parola. Nella lingua di Romania esistono due forme diverse per indicare gli abitanti del Paese: “Roman” che è il più antico e usato nella cultura antica di questo paese, e poi “Ruman” dal latino che però si traduceva come “romano” riferito alla popolazione latina. Riguardo questa differenza tra ru- e ro- ci sono stati dibattiti in moltissime lingue con motivazioni che sostenevano o l’una o l’altra radice secondo fatti storici o etici. Uno dei motivi a sostegno di “Rumeno” era di base latina: la forma con “Ro” veniva vista come un ‘evoluzione della parola collegata alla fraternità latina dei consanguinei Daci. Oggi questi scontri si sono dissolti e ufficialmente per la lingua italiana è possibile usarle entrambe, anche se sembra che l’espressione “Rumeno” venga usata più spesso. In lingua romena si dice român per “romeno”, quindi in realtà la confusione nasce solo in alcune lingue straniere, tra cui l’italiano. Capita molto spesso di sentire questa confusione, soprattutto nei media, nei commenti online o nei discorsi informali. A volte anche in modo strumentale, per rafforzare pregiudizi, come se “romeno” implicasse automaticamente “Rom”, che a sua volta viene (ingiustamente) legato a criminalità o marginalità. È un meccanismo sbagliato ma purtroppo diffuso. Molti cittadini della Romania preferiscono essere chiamati “rumeni” (invece che “romeni”) proprio per evitare l’associazione errata con i Rom, che sono un gruppo etnico a parte presente in vari Paesi europei. Di conseguenza, alcuni rumeni cercano di prendere le distanze da quell’immagine, sottolineando di essere cittadini della Romania (cioè rumeni, non rom). In effetti la Romania stessa, nel 2000, chiese ufficialmente all’Unione Europea di usare la forma “rumeno” per evitare fraintendimenti — anche se linguisticamente “romeno” resta corretto. Questa situazione, infatti, ha creato un piccolo paradosso linguistico. La forma corretta dal punto di vista etimologico è “romeno”. Ma per ragioni di sensibilità sociale e identitaria, sempre più persone preferiscono “rumeno”, anche nei contesti ufficiali. Quindi oggi si assiste a una sorta di convivenza tra i due termini, dove la scelta non è più solo grammaticale, ma anche identitaria.
Facem pace intre Rumeno e Romeno “Ru- e Ro”
Sensul acestor două cuvinte este același cu cel al locuitorilor României. În realitate, înlexiconul limbii italiene, ambele forme (Rumeno e Romeno) sunt tratate ca variante una a celeilalte și, prin urmare, pot fi folosite după cum se preferă. Acest lucru se datoreazăfaptului că, de-a lungul timpului, niciunul dintre cele două cuvinte nu a prevalat asupraceluilalt, dar ambele au fost folosite într-un mod cantitativ egal și, prin urmare, unul nu l-a dominat pe celălalt. Nu numai în limba italiană există variații ale acestor cuvinte. În limbaromână există două forme diferite pentru a indica locuitorii României: “Roman” care este cel mai vechi și cel mai folosit în cultura antică a acestei țări, și apoi “Ruman” din latinăcare, totuși, s-a tradus ca Romano referindu-se la populația latină. În ceea ce privește această diferență dintre Ru și Ro au existat dezbateri în multe limbi cu motive care susțineau fie una sau alta rădăcină, în funcție de fapte istorice sau etice. Unuldintre motivele pentru “român” a fost bazat pe latină: forma cu “Ro” a fost văzută ca o evoluție a cuvântului legat de fraternitatea latină a rudelor de sânge dacice. Astăzi acesteciocniri s-au dizolvat și oficial pentru limba italiană este posibil să le folosești pe amândouă, deși se pare că expresia “rumeno” este folosită mai des. În română, spunem român pentru “română”, deci în realitate confuzia apare doar în unelelimbi străine, inclusiv în italiană. Se întâmplă foarte des să auzim această confuzie, mai ales în mass-media, în comentariionline sau discursuri informale. Uneori chiar instrumental, pentru a întări prejudecățile, ca și cum “romeno” ar implica automat “romi”, care la rândul său este (nedrept) legat de criminalitate sau marginalizare. Este un mecanism greăit, dar din păcate larg răspândit. Mulți cetățeni ai României preferă să fie numiți “rumeni” (mai degrabă decât “romeni”) tocmai pentru a evita asocierea greșită cu romii, care sunt un grup etnic separat prezent îndiferite țări europene. Drept urmare, unii români încearcă să se distanțeze de această imagine, subliniind că suntcetățeni ai României (adică români, nu romi). De fapt, România însăși, în 2000, a cerut oficial Uniunii Europene să folosească forma “rumeno” pentru a evita neînțelegerile – chiar dacă lingvistic “romeno” rămâne corectă. Această situație, de fapt, a creat un mic paradox lingvistic: Forma corectă din punct de vedere etimologic este “romeno”. Dar din motive de sensibilitate socială și identitară, tot mai mulți oameni preferă “rumeno”, chiar și în contexte oficiale. Așa că astăzi asistăm la un fel de coexistență între cei doi termeni, în care alegerea nu mai este doar gramaticală, ci și identitară.
GELOSIA
AMPELIDE Se un uomo non è geloso e non va in collera, Criside, e ti rifila ogni tanto qualche ceffone, non ti taglia a zero di capelli e non ti strappa i vestiti, come puoi pensare che sia innamorato di te?
CRISIDE E sarebbe queste le sole dimostrazioni d’amore di un uomo?
AMPELIDE Sì, quelle di un uomo che arde di passione. Tutto il resto, i baci, le carezza, le lacrime, i giuramenti e le frequenti visite sono i sintomi di un amore appena sbocciato e che sta crescendo. Ma il fero fuoco nasce dalla gelosia. Perciò se il tuo Gorgia ti picchia, e si dimostra geloso, come dici, puoi davvero ben sperare, e devi anzi pregare, che faccia sempre così.
CRISIDE Sempre così? M che dici? Dovrebbe continuare a darmele?
AMPELIDE No, ma a tormentarti se non hai occhi solo per lui. E posi scusa, se davvero non ti amasse, perché dovrebbe infuriarsi sapendo che hai un altro uomo?
CRISIDE Ma io non ce l’ho! A torto crede che quel riccone sia innamorato di me, solo perché una volta mi è capitato di fargli il suo nome.
AMPELIDE E questo è di nuovo un bene! Lasciagli credere che i ricchi si interessino a te; si arrabbierà ancora di più, e farà di tutto per non essere superato dai suoi rivali in amore.
CRISIDE Per adesso si limita ad arrabbiarsi e a picchiarmi. Di regali non me ne fa.
AMPELIDE È geloso, vedrai che i regali arriveranno, soprattutto se lo farai soffrire.
CRISIDE Ma insomma, Ampelide, vuoi davvero che mi prenda un sacco di botte?
AMPELIDE Non ho detto questo, però sono convinta che i grandi amori nascano quando gli uomini si sentono trascurati. Se invece hanno la certezza di possederti, il loro desiderio in qualche modo si spegne. Ti dico questo perché sono vent’anno che faccio la cortigiana, mentre tu, a quanto ne so, hai appena diciotto anni, se non meno. Se vuoi, ti racconto quello che mi è successo qualche anno fa. Si era innamorato di me Demofante, l’usuraio, quello che abita dietro la Pecile (la stoà Pecile era un portico dipinto situato bella piazza principale di Atene). Non mi aveva mai dato più di cinque dracme, ma pensava di essere il mio padrone. Il suo era un amore superficiale, cara mia, per cui non sospirava, né piangeva, né si appostava a note fonda davanti alla mia porta; si limitava a dormire ogni tanto con me, e la cosa andò avanti per un pezzo. Poi un giorno si presentò e io lo chiudi fuori, perché in casa avevo Callide, il pittore, che mi aveva procurato dieci dracme; quella volta se ne andò coprendomi di insulti; ma in seguito, vedendo che i giorni passavano e io non lo mandavo a chiamare, non appena mi ritrovai di nuovo Callide in casa, Demofante in iziò a scaldarsi e andò su tutte le furie per quanto era successo. Così un giorno si mise a spiare la mia porta, aspettando che aprissi; poi iniziò a piangere e a picchiemi, minacciò di uccidermi e mi strappò le vesti, insomma ne fece di tutti i colori; ma alla fine mi diede un talento e mi tenne per sé per otto mesi. Sua moglie andava a dire a tutti che lo avevo fatto impazzire con qualche filtro magico, la l’unico filtro magico era la gelosia. E tu, Criside, faresti bene a usare lo stesso sistema con Gorgia. È un giovane destinati a diventare ricco, se mai dovesse succedere qualcosa a suo padre.
(Luciano di Samosata, “Ampelide e Criside”, in “Dialoghi delle cortigiane”, Il Melangolo.)

Gli alunni dell’IC Pitocco al teatro Ilaria Alpi: cosa ci insegna questa esperienza
Gli alunni dei plessi di Sacrofano, Magliano Romano e Castelnuovo di Porto hanno assistito a “Pulcinella nella luna”, di e con Federico Moschetti, un prima significativo passo verso il teatro, perché – insieme alla biblioteca comunale – diventino parte organica del sistema educativo “È la prima volta che tutti gli alunni dell’IC Pitocco si incontrano in uno stesso luogo”, ha detto Adele Cantoni, vicepreside di una scuola media che è distribuita in tre plessi di altrettanti comuni. “Io non mi sono annoiata, è stato carino lo spettacolo”, ha detto Rita, alunna della II B. “All’inizio mi sentivo imbarazzata”, ha detto un’alunna di Magliano. “Propongo per il prossimo anno un laboratorio teatrale per le scuole”, ha detto Gabriella Gandellini. Quando Federico Morsetti, il protagonista di “Pulcinella nella luna” dal palco del Teatro Ilaria Alpi ha chiesto ai 140 ragazzi in platea, “Chi di voi è già stato a teatro”? si sono alzate due o tre mani. Il che non solo conferma una ricerca Istat, secondo cui oltre il 70 per cento dei ragazzi tra i 6 e 19 anni non sono mai stati, a teatro, al cinema, a una mostra, al museo o in sito archeologico. Ma, nello specifico, dimostra che se si lavora per integrare tra loro scuola-teatro-biblioteca si ottengono lusinghieri risultati. A questo mirava l’iniziativa che abbiamo promosso come giornale, alla quale abbiamo trovato una pronta ed efficiente adesione sia da parte dell’IC Pitocco, che da parte del Comune di Sacrofano.
Nel cuore del cuore di Sacrofano
Il Ghetto ebraico nel Borgo Antico, dove la comunità ebraica di Sacrofano visse fino all’Unità d’Italia nel 1861. Ne parliamo con Alessia Felici, restauratrice
di Marco Ferri
«Conserva ancora il suo fascino storico, con vicoli stretti, archi e passaggi coperti che testimoniano la presenza ebraica nel borgo», esordisce Alessia Felici, che abbiamo incontrato ogni volta che ci siamo occupati di testimonianze storiche e artistiche della storia di Sacrofano.
Quando nacque? «Il Ghetto ebraico di Sacrofano ha origini che risalgono alla metà del XVI secolo, quando una comunità ebraica proveniente da Fiumefreddo Bruzio, in Calabria, si stabilì nel borgo medievale. Questa comunità trovò dimora nella parte più alta del centro storico, un tempo zona militare, che venne trasformata in un nucleo residenziale chiuso e destinato esclusivamente agli ebrei».
Come ci si accedeva? «L’accesso al ghetto avveniva attraverso il “Portone di Sopra”, situato nei pressi dell’attuale Piazza XX Settembre, nota anche come “Piazza de Pozza”. All’interno, si trovava una piccola corte chiusa, circondata da case basse con scale in pietra, accessibili da uno stretto passaggio ancora oggi identificato dalla scritta “Vecchio Ghetto».
Dalla Calabria, sotto il regno della Spagna a Sacrofano, nello Stato Pontificio, la strada è lunga. «Anche la storia della cacciata della comunità ebraica calabrese, se vogliamo. In Fiumefreddo Bruzio, cittadina della provincia di Cosenza, nel 1534 la comunità ebraica era dedita alla lavorazione della seta. Si era insediata in seguito agli accordi tra don Pedro Gonzales de Mendoza, viceré di Calabria che aveva trovato un compromesso per non cacciare gli ebrei, come era consuetudine degli occupanti spagnoli in Italia meridionale».
Quali i motivi del compromesso? «Ce li spiega Anna Esposito, professore associato di Storia Medievale presso La Sapienza, in un saggio intitolato “L’ebraismo nell’Italia Meridionale dalle origini al 1541”, Congedo Editore, 1996. Scrive la professoressa Esposito: ‘La terra di Fiumefreddo, che nel secondo Cinquecento diverrà uno dei centri più importanti della produzione e smercio della seta, già nel periodo precedente era un centro notevole per la produzione serica, per la qualità dell’agricoltura e per l’allevamento del bestiame».
Dunque, i motivi della proroga alla cacciata degli ebrei a Fiumefreddo furono di tipo economico. Essi furono redatti in un documento detto “Bifolio”. Chi furono i contraenti dell’accordo? «Per gli spagnoli, don Pedro Gonzales de Mendoza, viceré di Calabria; per la comunità ebraica calabrese fu David Gattegno, ebreo di origine catalana, che risiedeva a Roma. David era parente di Leone Gattegno, banchiere molto influente tra il 1506 e il 1529, nella capitale dello Stato Pontificio. Il legame con Leone favorì le profittevoli attività di Davide Gattegno nel commercio della seta. Questo spiega il suo interesse per la comunità ebraica di Fiumefreddo».
Qualcosa, però cambiò, nell’egemonia ebraica sul commercio della seta. «Sì, l’imprenditoria ebraica nel mercato della produzione della seta, che consisteva principalmente nella pratica delle anticipazioni creditizie, fu soppiantata dai mercanti genovesi che esportavano seta grezza destinata alla lavorazione nella città di Genova, con la conseguente perdita della centralità dei banchieri ebrei in Calabria».
Fatto sta che, comunque, scaduta la proroga contenuta nel “bifolio” gli ebrei di Fiumefreddo, come successe ovunque nel Meridione dominato dagli spagnoli, furono scacciati. Come finirono a Sacrofano? «Sappiamo che il “bifolio” è attualmente conservato nell’Archivio Orsini presso l’Archivio Storico Capitolino. Questo fa pensare che il documento sia stato utilizzato, anche con alcune modifiche, come base per l’ammissione della comunità ebraica in alcune località del Lazio. Va ricordato che Sacrofano era un feudo Orsini, dunque era nelle condizioni di venire considerato tra i domini di cui parla Paolo III nell’autorizzare l’insediamento a Sacrofano. La comunità ebraica di Sacrofano, a cui fu concesso di aprire un banco di pegno, fu guidata da Simone Cuscio, ebreo calabrese, che era, se non in affari, in ottimi rapporti con Davide Gattegno, autore di quel “bifolio” che, se pur emendato e adattato alla nuova realtà, fu la base giuridica della presenza degli ebrei nel ghetto di Sacrofano».
Oggi, il Ghetto ebraico di Sacrofano rappresenta un importante esempio di insediamento ebraico in un piccolo centro italiano, che offre uno spaccato della storia e della cultura ebraica nel Lazio.
(foto di Romeo Mancori)

Come i capelli possono rifiorire in primavera
a cura di Emanuele Bruschi
In primavera, dopo il freddo invernale, i capelli possono apparire spenti e fragili. È importante idratarli con maschere nutrienti a base di oli naturali. Opta per shampoo delicati e limita l’uso di strumenti a caldo, tipo piastra. Considera un taglio per eliminare le punte danneggiate e dare nuova vitalità alla chioma. Un massaggio delicato sul cuoio capelluto stimola la circolazione e favorisce la crescita.
Maggio verde
di P.Sa.
Cosa vogliamo fare a maggio con e per le nostre piante, a parte godere delle fioriture primaverili? C’è solo l’imbarazzo della scelta, che si parli di giardino, orto o balcone, ma i filoni sono fondamentalmente tre:
– le semine, se non si è deciso di anticipare ad aprile per il rialzo delle temperature, che è sempre più precoce;
– le difese, dal momento che la bella stagione scatena predatori e malattie;
– le preparazioni per l’estate.
SEMINE È tempo di seminare margherite, tagete, papaveri, nasturzi, gerbere, zinnie, petunie, portulache, astri, bocche di leone, lavande, calendule e chi più ne ha, in tema di fiori annuali e di bordure, più ne metta. Senza dimenticare le aromatiche, per le quali ci si potrà sbizzarrire a piacimento, a seconda dei gusti personali: basilico, rosmarino, timo, menta, prezzemolo e via odorando. Se invece siamo interessati a produrre qualcosa da mettere sotto i denti, via con gli ortaggi: zucche e zucchine, cetrioli, broccoli – compreso il fondamentale romanesco – carote, bietole, fagioli, ceci, cicorie, ravanelli. E il mais, se volete farvi in casa il pop corn per il cinema.
DIFESE La regina del mese è la rosa, che in quanto tale subisce attentati di ogni genere: i più comuni sono afidi, tentredini, bruchi e l’immancabile cocciniglia da un lato; oidio e ticchiolatura dall’altro. Cominciamo dando energia alla pianta con un buon fertilizzante specifico, dopodiché abbiamo due opzioni: chi ama la chimica farà ricorso a un prodotto sistemico contro gli invasori, chi preferisce i cosiddetti rimedi naturali si attrezzerà con olio di neem, sapone molle e prodotti a base di ortica. Contro le infezioni usiamo un fungicida a base di rame, ma se abbiamo a che fare con la peronospora della rosa scegliamone uno a base di potassio. Occhio alle innaffiature: mai esagerare. I prodotti citati vanno bene anche per altri tipi di fiori e per le piante commestibili, ma per queste ultime evitiamo insetticidi e fungicidi sistemici, che vengono assorbiti dalla pianta. Limitiamoci alle buone, vecchie sostanze come la poltiglia bordolese.
PREPARAZIONI Se abbiamo la fortuna di avere abbastanza spazio per una siepe, questo è il momento di darle forza e vigore, in vista dei grandi caldi: esistono concimi specifici in grado di irrobustirle prima che sia troppo tardi. Una siepe presuppone anche un prato: per evitare di ritrovarci una distesa giallastra, usiamo un concime a base di potassio che aiuterà a sopportare gli stress estivi. Per tutte le altre essenze, ricordiamo che un buon modo per combattere il calore e mantenere una buona percentuale di umidità intorno alle piante è la pacciamatura di protezione.
Dalla vacca, al vitello fino al piatto
Nei pascoli dell’Università degli Allevatori di bestiame si produce carne che avrebbe bisogno del marchio di qualità
“Il territorio seleziona la razza” dice Enrico Granori, titolare, con le figlie, dell’Azienda Agricola Fontanella della Ciota. Ciota in dialetto significa ciotola, e prende il nome da una specie di recipiente naturale che si è formato in un basamento di roccia, da cui si abbeverano gli animali al pascolo. Per altro, sempre per rimanere in tema, ciota è anche il “culetto” di un pane, la cui mollica veniva intrisa di latte di una fattrice per diventare una piccola colazione. La razza di cui parlano i Granori è la maremmana, i cui capi vengono allevati in conformità ai disciplinari stabilititi dalle politiche agricole comunitarie, compresa la specifica “classy form”, vale a dire attenzione e cura dell’alimentazione, la corretta somministrazione di integratori vitaminici e minerali, e il controllo del peso, soprattutto nel periodo dell’ingrasso dei vitelli. “Nella nostra azienda agricola”, -dice Lorena Granori – “alleviamo 30 capi, che producono vitelli da cui si ricava ottima carne, grazie all’allevamento estensivo, vale a dire il pascolo libero sugli ettari messi a disposizione, col criterio dell’usi civici, dall’Università degli Allevatori”. Nel territorio di Sacrofano si calcola ci siano 200 bovini e tra i 200 e i 300 equini. Se oltre all’allevamento, ci fosse la possibilità, o per meglio dire, la volontà organizzativa di dare vita a un consorzio per la produzione e un marchio di tutela e garanzia della carne di Sacrofano, – come avviene in numerose località italiane -, il territorio ne ricaverebbe un grande giovamento anche in termini di buona reputazione, con ricadute economiche che andrebbero a vantaggio di tutta la comunità.
Fave al guanciale
Una prelibatezza tipica del mese di maggio
di A I
Siamo al piacere di suggerirvi di servire questo piatto tipico sia come portata che come contorno di carni arrosto o lesse. La regina è la fava romanesca, perché è tenera e saporita. Diffidate delle imitazioni. Le fave al guanciale non devono risultare né dure né scure, ma mantenere il loro colore naturale e la caratteristica dolcezza di quando le mangiate crude, magari col pecorino, altra immancabile abitudine da onorare nel mese di maggio. Versate in un tegame con cucchiaio di olio extravergine di oliva, – meglio se è quello di Sacrofano -, aggiungete un cucchiaio colmo di cipolla tagliata a pezzetti piccoli e sottili e un cucchiaio di fettine di guanciale. Fate cuocere finché la cipolla non diventa trasparente così come il grasso del guanciale, poi versate nel tegame 500 grammi di fave sbucciate, fate insaporire, girando con un mestolo lentamente, poi aggiungete un pizzico di sale e una spruzzata di pepe. A questo punto, aggiungete mezzo bicchiere di brodo vegetale o semplicemente dell’acqua, e fate cuocere a fuoco allegro. Quando il brodo si è asciugato, spegnete il fornello. Lasciate riposare. E poi impiattate, gustandovi il profumo allegro della primavera di Sacrofano.

Il tema del mese
In accordo con le insegnanti dell’IC Pitocco e la delegata alla scuola designata dalla Giunta comunale, pubblichiamo a partire da questo numero un tema in classe. Apriamo con un compito che fa parte del progetto “Matteotti uomo libero”, iniziativa che ha coinvolto le scuole medie di Castelnuovo di Porto e Sacrofano. L’autore è un alunno della III B del plesso di Sacrofano.
L’uomo che si oppose al totalitarismo
di Niccolò Pendenza
Per totalitarismo si intende quella particolare forma di potere assoluto che non si limita a controllare la società, ma ambisce a trasformarla profondamente attraverso l’uso combinato di terrore e propaganda. Questa è la definizione oggettiva, quella che conosciamo tutti. Ma cosa ne penso io, invece? Non avendo vissuto in prima persona sotto un regime totalitario, posso solo cercare di immaginare cosa significhi vivere sotto un regime totalitario, posso solo cercare di immaginare cosa significhi vivere in un contesto del genere. Prendendo come esempio il fascismo, il regime totalitario che si è avverato nella nostra storia, sono sicuro che l’esperienza fosse un misto di paura costante e senso di impotenza. In tale contesto, ogni opinione dissacrante poteva trasformarsi in una condanna e la propaganda modellava pensieri e valori, privando le persone della possibilità pensare liberamente. Ma ciò che trovo più inquietante è il rischio che il regime non solo opprima dall’esterno, ma che riesca a insinuarsi nella mente, fino al punto di non rendersi nemmeno conto di essere schiavi. Forse il pericolo più grande del totalitarismo non è solo quello di distruggere le libertà, ma di plasmare le persone in modo così profondo da renderle complici inconsapevoli del sistema. In questo contesto la società perde la sua vitalità e il suo dinamismo, trasformandosi in una massa informe, priva di autentici legami umani. Eppure, nonostante tutto, ci sono e ci saranno sempre piccole scintille di coraggio, spesso silenziose ma che testimoniano l’insopprimibile desiderio umano di libertà. Questo coraggio lo troviamo nelle parole di Giacomo Matteotti, che nel suo ultimo discorso in Parlamento, prima di essere assassinato, pronunciò una frase che continua a essere tramandata ancora oggi: “Voi potete uccidere me, ma non ucciderete mai l’idea che è in me”: Quella frase non fu solo un atto di sfida al regime fascista, ma un monito per le generazioni future. Anche sotto l’oppressione più feroce, le idee di libertà e giustizia non potranno mai essere soffocate del tutto. (Nella foto: il manoscritto originale)
Un cineasta a Sacrofano
Francesco Bonelli, classe 1967, attore, sceneggiatore e regista vive e lavora da anni a Monte Caminetto
Ha lavorato con Luigi Comencini, col quale ha esordito a 13 anni come attore nel film Voltati Eugenio, per poi proseguire con registi del calibro di Luciano Salce, Ettore Scola, Dino Risi. Ha diretto Radio Cortile (2016), Anche senza di te (2018). L’amore allegro (2020) è attualmente disponibile sulle piattaforme. “Il mio punto di vista è l’autenticità”, ci dice Bonelli che predilige narrazioni filmiche all’insegna di una sorta di evoluzione intimista, ancorché sarcastica, a volte comica, di quella che è stata la commedia all’italiana, c he invece fu un fattore molto penetrante di autocritica collettiva dei costumi, delle ipocrisie, dei difetti degli italiani. La scheda di L’amore allegro ci dice si tratti di film sull’amore, sugli errori, sulle scelte che vuole parlare con un linguaggio diretto col pubblico. In queste definizioni si nota l’influenza dell’esperienza televisiva che ha caratterizzato molta parte della vita professionale di Bonelli, il quale ha la vorato spesso con Simona Izzo, ma anche con Ricky Tognazzi per produzioni televisive. Infatti, a un certo punto della nostra conversazione, Bonelli afferma: “La cultur a non è né di destra né di sinistra”. Che però, più c he una presa di posizione politica, suona
come un punto di vista di marketing, cioè il perseguimento di obiettivi di audience utili alla maggiore diffusione del prodotto, a cominciare dall’allargamento del target, come si chiama in gergo il pubblico cui rivolgere l’offerta creativa. È evidente che più alto è il numero degli spettatori, anc he di quelli che si collegano sulle piattaforme, più aumentano le possibilità di produzioni future. Bonelli si occupa anche di insegnamento, in particolare di recitazione e drammaturgia, impartendo lezioni private. Parafrasando una famosa battuta di Casablanca, mitico film del 1942, interpretato dal celebre Humphrey Bogart, e diretto da Michael Curtiz (1886-1962) – leggenda del cinema Made in USA degli anni Trenta – gli c hiediamo: “Francesco, cosa ti ha portato a Sacrofano?”; egli risponde; “La fuga da Roma”.

Le persone

Monia Ciarlantini

Alessandra Domizi
Wonder Monia
Monia Ciarlantini, la fata morgana di Borgo Pineto, fa magie una dopo l’altra. Tra una Fattoria della Zucca e quella della Uo va, è riuscita
anche a rinnovare il Duemme Bar, divenuto negli anni un vero e proprio punto di riferimento per gli abitanti della frazione, ma anche per chi vive lungo via di Valle Muricana, verso Roma.
La corniciaia nella cornice del Borgo
Alessandra Domizi gestisce il laboratorio in cui sceglie e mette in opera le cornici di quadri, stampe, foto e disegni. Ha imparato da un corniciaio di Campagnano, per poi aprire il suo laboratorio negli anni Novanta. Nata a Sacrofano, sposata, madre di due figli, svolge la sua attività con la sapienza manuale di chi è artigiana da 30 anni.
Mancano marciapiedi e strisce pedonali, il trasporto pubblico va adeguato alle norme sulla sicurezza stradale
Non solo le fermate Cotral sulla Flaminia, nemmeno le 30 fermate del trasporto locale presenti sul territorio comunale sembrano conformi a quanto previsto dalle norme in vigore
di L B
Se l’efficienza del trasporto pubblico è uno dei fattori della qualità della vita di un comune, la sicurezza è il requisito fondamentale della sua efficienza. Anche in previsione della sospensione della linea ferroviaria tra Morlupo e Sacrofano la situazione del trasporto pubblico va rivista con urgenza. Sebbene molti percepiscano il problema non sembra esserci troppa sensibilità da parte di Cotral: ci sono fermate su via Flaminia, fuori quindi dal territorio comunale, ma su una strada molto frequentata da pendolari residenti a Sacrofano, grottesche per quanto pericolose, pensate e realizzate in evidente contrasto con qualsiasi normativa vigente oltre che col buonsenso e l’intelligenza. Anche il piano regionale della mobilità dei trasporti e della logistica del 2020 riporta che una criticità legata alla sicurezza stradale riguarda la pericolosità delle fermate del trasporto pubblico extraurbano. Il fatto è che quasi nessuna delle almeno 30 fermate del trasporto locale presenti sul territorio comunale è conforme a quanto previsto dalle norme in vigore. Partiamo dall’aspetto normativo: il Codice della Strada prevede che le fermate degli autobus debbano essere effettuate in modo da evitare che i passeggeri in salita o in discesa dai mezzi impegnino la carreggiata, diminuendo la capacità della strada e intralciando il traffico sulla stessa carreggiata. Il suddetto piano riporta: la sicurezza dei pedoni da e per le fermate del Trasporto Pubblico è una questione spesso sottovalutata sebbene sia molto importante, considerato che la maggior parte delle linee di trasporto extraurbane transita lungo arterie trafficate. Per questo motivo, è necessario prevedere misure adeguate, da implementare a valle di analisi di sicurezza, quali ad esempio: presenza di marciapiedi per ogni fermata dell’autobus; attraversamenti pedonali o semafori in prossimità di ogni fermata sulle strade principali; attraversamenti pedonali posizionati dietro la fermata dell’autobus e non davanti. È evidente che la conformazione del territorio, di fatto una serie ininterrotta di abitazioni o intersezioni che portano a piccoli agglomerati, impone la presenza di fermate frequenti, anche in punti in cui oggettivamente è complicato pensare ad un marciapiede, oppure a una pensilina (non è prevista dalla legge ma aiuta in caso di pioggia) o ad un attraversamento pedonale in sicurezza ma è necessario che, al di là del buonsenso degli utenti della strada, su cui troppo spesso si fa affidamento, ci sia una presa di coscienza circa il problema. Un ineludibile punto di partenza dovrebbe essere la mappatura delle fermate sia quelle del servizio pubblico regionale che quelle del trasporto locale – comunale – oltre a quelle degli scuolabus: individuare criticità, fermate particolarmente affollate, fasce orarie di particolare afflusso di utenti, abitudini rischiose, punti in cui la velocità delle auto in transito e la mancanza di visibilità o spazio a margine della carreggiata rende la situazione particolarmente pericolosa. Un contributo a tale screening potrebbe essere dato oltre che dagli utenti del servizio pubblico, dagli automobilisti oltre che dagli autisti stessi dei mezzi. È un tema, questo che non riguarda solo i fruitori di mezzi pubblici, che lo vivono sulla loro pelle, ma gli utenti della strada tutti. Che poi sono i cittadini del Comune.
